Come sono diventato davvero produttivo?
Senza filtri #11
Prima di quest’estate, mentre guardavo il mio calendario completamente invaso da call su call, mi sono fatto una domanda che mi ha tenuto sveglio tenuto sveglio la notte:
“Sto lavorando tanto. Ma è l’unico modo per fare tutto? O forse sono solo disorganizzato?”
Non era la prima volta che me lo chiedevo, ma era la prima volta che ho avuto il coraggio di ammettere la risposta.
Ero stanco.
Non il tipo di stanchezza che si risolve con un weekend al mare.
Era quella stanchezza che ti fa svegliare già esausto e che ti fa andare a letto con la lista delle cose da fare più lunga di quando ti eri alzato.
Il calendario era stracolmo. Le notifiche non si fermavano mai.
E io? Io mi sentivo in colpa.
Colpevole di non riuscire a fare tutto. Colpevole di dire “lo faccio domani” (o peggio “lo faccio sabato”) troppo spesso. Colpevole di non sentirmi abbastanza produttivo.
Il problema non era che lavoravo poco.
Ma che lo stavo facendo male.
Il caos travestito da organizzazione
Prima di quest’estate, il mio sistema di gestione delle priorità era... beh, non esisteva.
O meglio, esisteva in teoria. Nella pratica era un disastro.
Avevo to-do list sparse ovunque: un tool per il lavoro, uno per i progetti personali, post-it sulla scrivania, note sul telefono, email flaggate come “starred” che restavano lì per settimane.
Mi svegliavo, guardavo la lista, sceglievo quello che mi sembrava più urgente (o più facile, o più interessante in quel momento), e via.
Senza un vero criterio e senza chiedermi se quella fosse davvero la cosa più importante. E quando arrivava una nuova richiesta?
Un messaggio su Slack, una mail, una call improvvisata? Lasciavo tutto e mi buttavo su quello.
Pensavo di essere flessibile. In realtà ero solo reattivo.
E la parte peggiore era che non riuscivo a distinguere tra cosa fosse urgente e cosa fosse importante.
Tutto sembrava urgente. Tutto sembrava importante.
E alla fine della giornata, quando guardavo cosa avevo fatto, mi rendevo conto che avevo chiuso tante piccole cose, ma non avevo fatto progressi su nulla di davvero rilevante.
La lista cresceva in continuazione, io lavoravo di più, ma sembrava non bastare mai.
Il momento in cui ho capito che dovevo cambiare
La svolta è arrivata quando mi sono reso conto di una cosa semplice:
Non potevo continuare così. Non con una figlia piccola. Non se volevo essere presente.
Prima di diventare padre, potevo permettermi il caos. Se dovevo lavorare fino a mezzanotte perché non avevo organizzato bene la giornata, amen. Dormivo meno, recuperavo nel weekend.
Ma ora ogni ora conta. Non voglio rubare tempo alla mia famiglia per compensare la mia disorganizzazione.
E soprattutto, non volevo più sentirmi in colpa con me stesso.
Dovevo smettere di lavorare tanto e iniziare a lavorare bene.
Così ho fatto quello che faccio sempre quando non so come risolvere un problema: leggere.
I libri che mi hanno aperto gli occhi
Ho letto tre libri che mi hanno completamente ribaltato la prospettiva su cosa significhi essere produttivi.
Deep Work e Slow Productivity (Cal Newport)
Cal Newport mi ha fatto capire una cosa fondamentale: lavorare tanto non significa lavorare bene.
La nostra cultura del lavoro (e i social soprattutto) ci ha venduto l’idea che il successo sia proporzionale alle ore lavorate. Che se non sei sempre occupato, non stai facendo abbastanza.
Ma è una bugia.
Newport parla di “pseudo-produttività”: quella sensazione di essere sempre impegnati senza produrre nulla di davvero significativo. Rispondere a mail, fare meeting, spostare task da una lista all’altra.
Una frase che mi è rimasta impressa:
“Doing things in a reasonable way, at a natural pace, and over a sustainable timeline is not laziness—it’s common sense.” — Cal Newport, Slow Productivity
Non devi dimostrare niente a nessuno. Non devi postare su LinkedIn alle 6 di mattina per far vedere che sei produttivo.
Devi solo fare le cose giuste, nel modo giusto, con i tuoi tempi
The One Thing (Gary Keller)
Questo libro mi ha insegnato a fare una domanda che ora mi faccio ogni giorno:
“What’s the ONE thing I can do such that by doing it, everything else will be easier or unnecessary?” — Gary Keller, The One Thing
Non tutto ha lo stesso peso. Non tutto merita la stessa attenzione.
C’è sempre una cosa che, se la fai per prima, rende tutto il resto più semplice o addirittura inutile.
Keller mi ha fatto capire che delegare non è segno di debolezza.
È segno di intelligenza.
Se una cosa può essere fatta da qualcun altro, delegala. Se una cosa può aspettare, falla aspettare. Se una cosa non serve davvero, non farla proprio.
Lavora su una cosa alla volta. Ma falla bene.
Cosa faccio oggi
Dopo aver letto, ho dovuto smontare tutto e ricostruire da zero.
Ora ho un mio sistema. Non è perfetto, ma mi permette di lavorare bene, di essere presente per mia figlia (e di dormire la notte senza sensi di colpa).
Il calendario: da caos a controllo
Prima di quest’estate, il mio calendario era un bordello esagerato.
Call alle 9. Call alle 10:30. Call alle 14. Call alle 16.
E in mezzo? Niente.
O meglio, “tempo libero” che finiva sempre riempito da imprevisti o da quel compito che avrei dovuto fare settimane fa.
Non avevo momenti di focus. Non avevo momenti per pensare.
Oggi il mio calendario ha una struttura rigida:
Lunedì: Solo meeting di update con i clienti e interni. Niente altro. Questo mi permette di allinearmi su tutto all’inizio della settimana e poi lavorare senza interruzioni.
No meeting zones: Ho blocchi fissi di tempo, ogni giorno, dove non accetto call. Punto. Sono le mie “focus hours”. Notifiche spente, Slack in pausa, telefono in modalità aereo.
Impegni personali nel calendario: Palestra. Piscina con mia figlia. Spesa. Tutto. Se non è nel calendario, non esiste. E se è nel calendario, è protetto come un meeting con il cliente più importante.
Prima pensavo che questa rigidità fosse limitante.
Invece è liberante.
Perché quando qualcuno mi chiede “Ci vediamo domani alle 11?”, posso dire: “Domani non posso, ti va bene giovedì alle 15?” senza sentirmi in colpa.
E sai cosa? Nessuno si è mai offeso. Anzi, apprezzano la chiarezza.
Gli strumenti: finalmente uno solo
Basta tool sparsi ovunque. Basta post-it. Basta liste dimenticate.
Ora uso Notion. Solo Notion.
Tutto finisce lì. Progetti, task, appunti, idee. Tutto in un unico posto.
Ma la vera svolta non è Notion ma le automazioni che ci ho costruito attorno.
Ad esempio: Phantom + Zapier
Phantom registra i meeting e con l’AI, estrae automaticamente le action item citate nel meeting. Quelle assegnate a me finiscono direttamente nella mia to-do list su Notion tramite Zapier.
Non devo più prendere appunti frenetici durante le call. Non devo più rileggere pagine di note per capire cosa devo fare.
L’AI lo fa per me.
Altra automazione: Calendar + Zapier
Quando leggo le mail le taggo con una label “To do”. Sai già dove vanno, vero?
Se arriva un imprevisto, non aggiungo ore. Rivedo le priorità.
Sposto. Delego. Elimino. Ma non aggiungo carico.
Le priorità: effort, deadline, e “sono io la persona giusta?”
Ogni giorno, la prima cosa che faccio è riordinare la to-do list.
Mi chiedo tre cose per ogni task:
Quanto effort richiede? (Posso farlo in 30 minuti o mi serve mezza giornata?)
Qual è la deadline? (È davvero urgente o può aspettare?)
Sono io la persona giusta per farlo? (O posso delegare?)
Se la risposta alla terza domanda è no, delego. Punto.
Non è più una questione di orgoglio. È una questione di impatto.
Preferisco fare bene due cose importanti che fare male dieci cose mediocri.
Dire di no: la skill più sottovalutata
All’inizio avevo paura di dire no.
“E se il cliente si offende?”
“E se pensano che non sono abbastanza disponibile?”
“E se perdo l’opportunità?”
Poi ho capito una cosa: dire di no con un’alternativa non è dire di no. È rispettare il tuo tempo e quello del cliente.
Quando qualcuno mi chiede un meeting fuori dai miei slot:
“Non posso in questo momento, ti va bene giovedì alle 15?”
Nessuno si è mai offeso. Anzi, apprezzano che io abbia un’organizzazione chiara.
Proteggere il tempo di focus non è egoismo. È professionalità.
Cosa ho imparato
Lavorare tanto non ti rende produttivo. Ti rende solo occupato.
I social ci vendono la hustle culture. I founder che dormono 4 ore. I CEO che lavorano 80 ore a settimana. I post su LinkedIn alle 5 di mattina con scritto “oggi si spacca”.
Ma è una bugia.
Nessuno ti darà una medaglia per aver lavorato fino allo sfinimento. Nessuno ti ringrazierà per aver sacrificato la tua salute, la tua famiglia, la tua vita.
Quello che conta è l’impatto, non le ore.
E per generare impatto, serve organizzazione. Serve metodo. Serve il coraggio di proteggere il tuo tempo e di dire no a tutto ciò che non è essenziale.
L’errore più grande che facevo (e che vedo fare a tanti altri) è lavorare senza metodo.
Fare quello che capita. Rispondere a tutto. Accettare ogni richiesta.
E poi lamentarsi di non avere tempo.
Ma il tempo c’è. Solo che lo stai usando male.
Ti lancio un guanto di sfida
Se sei arrivato fino a qui, probabilmente ti riconosci in qualcosa che ho scritto.
Forse anche tu hai il calendario pieno ma la sensazione di non concludere nulla.
Forse anche tu ti senti in colpa per non fare abbastanza.
Forse anche tu stai lavorando tanto, ma non stai lavorando bene.
Allora ti lancio una sfida concreta:
Per una settimana, blocca 2 ore al giorno. No meeting. No notifiche. Solo focus work.
Non importa quando. Mattina presto, pomeriggio, sera. Scegli l’orario che funziona per te.
Ma proteggilo. Come se fosse un meeting con il cliente più importante che hai.
E alla fine della settimana, chiediti:
“Sto lavorando bene o sto solo lavorando tanto?”
Perché la differenza tra i due non è solo una questione di ore.
È una questione di vita.
Ci vediamo alla prossima newsletter.
Senza filtri,
Chri
P.S. Come gestisci le tue priorità? Hai mai provato a proteggere davvero il tuo tempo di focus? Rispondi a questa mail, leggo tutto e rispondo (quasi) sempre.
P.P.S. Se questa newsletter ti ha fatto riflettere, girala a qualcuno che conosci. Magari anche lui ha bisogno di smettere di sentirsi in colpa per non fare abbastanza.







