Come scelgo le persone giuste
Senza filtri #13
Il suo CV era perfetto, tecnicamente.
Aveva anni di esperienza, il colloquio tecnico era andato benissimo e aveva risposto senza esitazione.
Ci diciamo: “Finalmente l’abbiamo trovato”. Poi firma il contratto, inizia e le prime settimane sembrano andare molto bene.
Tecnicamente era forte, nessun dubbio. A un certo punto, però, iniziano ad arrivare i segnali.
Comincia a rispondere male in chat, a saltare le riunioni dicendo “non m’interessa l’argomento”, e infine a criticare il lavoro dei colleghi.
La situazione peggiora nel tempo, non risponde più male solo ad alcune persone, ma a tutti.
È maleducato, geloso del suo lavoro e si sente superiore. Ogni suggerimento sembra un attacco personale.
Il team inizia a cambiare: le persone evitano di lavorare con lui, le pull request si fermano in attesa di un cenno, perché nessuno vuole affrontare la sua reazione. In ultimo, l’atmosfera si fa pesante. Troppo.
E noi? Noi temporeggiamo.
“Magari si ambienta.”
“Dai, è solo stressato per il nuovo lavoro.”
“Però tecnicamente è bravo, non possiamo perdere uno così.”
Così abbiamo fatto passare il periodo di prova, e quando finalmente abbiamo capito che non potevamo più andare avanti così, mandarlo a casa è diventato complicato (e costoso).
Ma non solo economicamente eh, il danno vero era ciò che aveva fatto al team. Persone che prima lavoravano bene assieme, avevano perso fiducia. L’ambiente era diventato tossico.
Quando se n’è andato, il giorno dopo in ufficio c’era un’altra aria.
In quel momento ho realizzato una cosa: saper scegliere le persone giuste è il 50% del lavoro di ogni founder, di ogni tech leader e di chiunque debba costruire un team.
E indovina? Io, fino a quel momento, lo stavo facendo male.
Come sbagliavo (e forse lo stai facendo anche tu)
Prima di quella esperienza, il mio modo di fare hiring era semplice: guardavo le competenze tecniche.
Il CV arrivava già pre-scremato dall’HR, io facevo il colloquio tecnico e se sapeva fare quello che serviva, andava bene.
“Conosce React? Check.”
“Ha esperienza con i microservizi? Check.”
“Sa scrivere codice pulito? Check.”
Ottimo.
Assunto.
Pensavo che le skill tecniche fossero tutto. Se sai fare, il resto si sistema.
E invece no, non si sistema un bel niente.
Perché puoi essere il developer più bravo del mondo, ma se nessuno vuole lavorare con te, crei più danno che vantaggio.
E io ci ho messo anni a capirlo.
Come sono cambiato
Dopo quel disastro, ho iniziato a ragionare diversamente.
Mi sono chiesto: cosa sto cercando davvero quando assumo qualcuno?
La risposta non era più “qualcuno che sa fare X tecnologia.”
La risposta era: qualcuno che ha risolto problemi. E voglio capire quali, come e con chi.
La tecnologia è diventata un mezzo, non il fine.
Quello che contava davvero era:
Che problemi hai affrontato nella tua carriera?
Come li hai risolti?
Con chi hai lavorato?
In che ambienti?
Ho iniziato a guardare le persone, non solo i CV. E ho iniziato a chiedermi: questa è una persona su cui vale la pena investire?
Anche se non è perfetta tecnicamente. Anche se le manca qualche skill. Ma è una persona con cui si può lavorare? Che può crescere? Che vuole crescere?
Perché a volte è meglio assumere qualcuno meno skillato ma con cui puoi costruire, piuttosto che il “senior perfetto” che poi distrugge il team.
Come funziona oggi
Oggi faccio l’hiring in due modi diversi: quando cerco collaboratori diretti per i miei progetti e quando seguo il processo di assunzione per le startup che seguo come Fractional CTO.
In entrambi i casi, la filosofia è la stessa, ma il processo cambia.
Premessa importante
Qualche mese fa ho fatto un post su LinkedIn cercando collaboratori.
Mi sono arrivate 300 candidature.
Quando ho visto il numero, per un secondo ho pensato: “Mo sono cazzi….” (senza filtri, no?)
Ho pensato di automatizzare tutto o usare qualche tool di screening… ma non me la sono sentita.
Così ho fatto una cosa probabilmente poco scalabile ma che per me aveva senso: le ho lette tutte.
Una per una.
Ci ho messo settimane. Ho avvisato subito tutti che ci avrei messo tempo, che avrei risposto a tutti (anche con un no).
E l’ho fatto: tutti i 300, anche quelli che non andavano bene, hanno ricevuto un feedback.
Perché nell’hiring è anche chi viene assunto che sceglie, non è solo una strada a senso unico.
E questa cosa vale sia per me, sia quando lavoro con i founder delle startup.
Spesso mi capita di vedere aziende che trattano i candidati come numeri: nessun feedback e processi che durano mesi senza comunicazioni.
E poi si lamentano che non trovano persone.
Il punto è che il talento oggi sceglie.
E sceglie chi li rispetta già dal processo di selezione.
Come faccio la prima scrematura
Oggi, la prima cosa che guardo non è il CV. È il profilo LinkedIn.
Per me è diventato il vero biglietto da visita. Più del CV.
Cosa guardo:
Come è scritto. La scelta delle parole. Se le tecnologie sono menzionate con senso o buttate lì a caso.
Le esperienze. Non i titoli, ma quello che è stato fatto. I problemi risolti. I risultati.
Come si presenta. Non il design fighetto, ma la capacità di comunicare chi è e cosa sa fare.
Come si relaziona sui social (sì, ti osservo quando commenti e cosa commenti).
Se il profilo LinkedIn non mi convince, difficilmente vado avanti.
Se invece mi convince, parto con il processo.
I colloqui: come cambiano in base al contesto
Quando assumo collaboratori diretti, faccio due colloqui:
Primo colloquio: conoscitivo
Qui non parlo quasi di tecnologia. Parlo di esperienze, di contesto e di team.
Voglio capire:
In che ambienti hai lavorato
Che problemi hai affrontato
Come li hai risolti
Con chi hai collaborato
E soprattutto voglio capire: sei una persona o sei una macchina?
Perché il CV lo sanno scrivere tutti… ma la persona, quella la vedi solo dal vivo.
Secondo colloquio: tecnico
Se passa il primo step, andiamo sul concreto. Test teorici e pratici: live coding, architetture e problem solving.
Ma anche qui, non mi interessa solo se “sai fare”, mi interessa “come pensi”.
Quando invece seguo il processo per le startup che seguo come Fractional CTO, il processo è più strutturato e coinvolge tre step:
Primo step: HR/Comportamentale
Qui lavoro con il team HR (o lo faccio io se non c’è) per valutare le soft skills, la motivazione, il fit culturale. Questo permette di scremare subito chi non è allineato con i valori dell’azienda.
Secondo step: Tecnico
Qui entro io. Valuto le competenze, faccio test pratici, verifico che sappia pensare e risolvere problemi.
Terzo step: Decisionale
L’ultima call è con i founder, i tech leader o comunque chi poi lavorerà direttamente con quella persona. Perché alla fine, devono essere loro a dire: “Sì, voglio questa persona nel mio team.”
Il mio ruolo è portare davanti ai founder solo candidati che hanno già passato i primi due filtri. Non gli faccio perdere tempo con persone che non vanno bene.
Le red flags che non ignoro più
Durante i colloqui, ci sono cose che ormai mi fanno scattare l’allarme immediatamente.
1. Parla sempre di “noi” e mai di “io”
“Noi abbiamo fatto questo progetto.”
“Noi abbiamo risolto questo problema.”
Ok, ma tu cosa hai fatto? Qual è stato il tuo contributo specifico?
Se dopo tre domande continui a dirmi “noi”, vuol dire che probabilmente quel problema non l’hai risolto tu. E se non l’hai risolto tu, non hai quell’esperienza.
2. Risponde con “nella mia azienda facciamo così”
Gli chiedo: “Come affronteresti questo problema?”
Mi risponde: “Beh, nella mia azienda attuale facciamo così“
Io non ti sto chiedendo cosa fa la tua azienda. Ti sto chiedendo cosa faresti TU.
Se non sai pensare in autonomia, è un problema.
3. Non fa domande
Se la risposta è “No, tutto chiaro,” è una red flag gigante.
Come fai a non avere curiosità? Come fai a non voler sapere niente sul progetto, sul team, sugli strumenti, sulle sfide?
L’entusiasmo si vede anche da questo. E se non c’è entusiasmo, non c’è voglia di lavorare insieme.
4. È maleducato o arrogante
Questa ormai la intercetto subito dal tono di voce, dal modo di rispondere o da come parla degli ex colleghi o dell’azienda precedente.
Se durante un colloquio, dove teoricamente uno si presenta al meglio, già emergono segnali di maleducazione o arroganza, immagina quando sarà dentro al team.
La domanda finale che mi faccio (e faccio fare) sempre
Alla fine di ogni colloquio, mi fermo e mi chiedo una cosa sola:
“È una persona con cui vorrei lavorare?”
Vorrei passare 8 ore al giorno a collaborare con questa persona?
Vorrei che facesse parte del team?
Se la risposta è no, non importa quanto sia bravo… Non va bene.
E quando lavoro con i founder, gli insegno a farsi la stessa domanda.
Perché loro saranno quelli che ci lavoreranno ogni giorno. E se io sono convinto ma loro non lo sono, allora non è la persona giusta.
Dai sempre un feedback (anche quando è un no)
Una cosa che ho imparato è che il feedback è fondamentale. Sempre.
Sia quando dico sì, sia quando dico no.
Quando do un feedback negativo, cerco di essere chiaro ma rispettoso:
“Guarda, secondo me ad oggi non sei la persona giusta per questo tipo di attività. Stiamo cercando qualcuno con più esperienza in X. Probabilmente non è il momento giusto.”
E quando possibile, cerco anche di dare spunti su come migliorare.
Il 99,9% delle persone la prende bene. Non bene bene, ovvio. Nessuno è felice di un no, ma lo apprezzano.
Perché è meglio un no chiaro che essere ghostati.
E c’è un’altra cosa che faccio, che molti non si aspettano: chiedo feedback anche a loro.
“Come ti sei trovato con il colloquio? C’è qualcosa che avresti cambiato?”
Perché l’hiring è una strada a doppio senso. E se voglio migliorare, devo ascoltare anche dall’altra parte.
Questa cosa la insegno anche ai founder con cui lavoro.
All’inizio mi guardano straniti: “Ma perché devo chiedere feedback a chi non assumo?“
Semplice: perché quel candidato scartato oggi potrebbe essere quello giusto domani. O potrebbe parlare bene (o male) di te nel suo network.
E soprattutto, perché ti dice dove puoi migliorare il tuo processo.
Cosa ho imparato davvero
Dopo anni di colloqui, la lezione più importante è questa:
Per me, vince sempre la persona con cui vuoi lavorare davvero.
Puoi essere tecnicamente bravo quanto vuoi, ma se crei più danno che vantaggio, non servi a niente.
E al contrario, puoi essere meno skillato di altri, ma se sei una persona su cui si può investire, su cui si può contare, con cui si può costruire, allora vali molto di più.
Perché le competenze si imparano. Il modo di essere, molto meno.
E soprattutto, ho capito che saper mandare a casa è importante quanto saper assumere.
Se sbagli un’assunzione (e succede), la cosa peggiore che puoi fare è temporeggiare, perché no, le cose non si sistemano da sole.
Il danno si accumula, deteriore il team, il progetto e l’ambiente. E quando finalmente ti decidi ad agire… è già troppo tardi.
Questa è una delle cose più difficili da far capire ai founder, perché hanno paura di ammettere l’errore, di apparire incapaci.
Ma la verità è che tenere la persona sbagliata costa molto di più che mandarla a casa.
La domanda che ti lascio
La prossima volta che fai un colloquio, chiediti:
Sto cercando qualcuno che “sa fare” o sto cercando qualcuno con cui voglio lavorare?
Non tutto si vede sulla carta…
E non tutto si risolve con le competenze tecniche.
A volte la differenza tra un team che funziona e uno che implode è solo questa: aver scelto le persone giuste.
Ci vediamo alla prossima newsletter.
Senza filtri,
Chri




